I sogni, le vocazioni, i sogni di vocazione
Certo che a Don Bosco il sogno dei 9 anni è “rimasto impresso nella mente per tutta la vita”! Quel sogno non doveva illuminare e orientare soltanto lui, ma molti altri. Quel sogno è il mito fondativo di un’intera famiglia spirituale. In esso si condensano gli elementi costitutivi di una vocazione, di una missione, di un carisma. E in effetti, il racconto manifesta con chiarezza l’intento di lasciare alle generazioni future una preziosa eredità spirituale e pastorale.
Il sogno è chiaramente una scena di vocazione e missione. La cosa è comprensibile: l’uomo è vocazione e missione! L’identità profonda di ogni uomo è vocazionale e missionaria. Ogni uomo è interpellato da Dio e coinvolto nel Suo disegno d’amore, e proprio così la sua vita diventa sensata e feconda. Non c’è niente di più bello che riconoscersi toccati da Dio, chiamati per nome e mandati nel Suo nome. È un’esperienza che riempie il cuore di umiltà e di coraggio, di fiducia e di speranza, di amore da ricevere e da donare; quantomeno, è un’esperienza che impedisce di vivere la vita come un tentativo arbitrario o un’impresa solitaria, con tutto la scia di sterilità e di tristezza che ne segue.
Il fatto che una un carisma e una spiritualità come quella di Don Bosco sia inaugurata da un sogno è qualcosa di molto significativo. La coscienza notturna che è propria del sogno è come una porta aperta sul mistero, che esprime il primato e l’iniziativa di Dio, e rende al tempo stesso umili e coraggiosi perché autorizzati a vivere e operare dalla sapienza e dalla potenza di Dio, non dalla propria intelligenza e intraprendenza, e non nonostante i propri limiti e difetti. La persona che si consegna al sogno di Dio è certo che realizzerà un’opera di Dio!
Il sogno e la vocazione sono dunque imparentati. Il loro tratto comune è l’oscurità dei particolari: è così “perché il messaggio viene da Dio, e non nonostante venga da Dio” (K. Rahner), e poi perché parla di un futuro che non va tanto immaginato, quanto percorso. Altro tratto comune al sogno e alla vocazione è infatti che le immagini e le ispirazioni non sono delle idee ma dei comandi, non delle illustrazioni ma delle ingiunzioni. In ogni vocazione la strada non è conosciuta in partenza, ma si apre percorrendola. È sempre così: si capisce quello che si vive, e l’intelligenza si dilata con l’obbedienza e l’intraprendenza.
Le vocazioni nella Bibbia: stupore e turbamento, consolazione e desolazione
C’è un particolare nel racconto del sogno dei 9 anni che esprime qualcosa di molto istruttivo su ogni vocazione e missione, e che accomuna la vocazione di Giovanni Bosco a tutte le grandi scene di vocazione presenti nella Bibbia: si tratta di un immancabile senso di turbamento che attraversa l’anima del chiamato di fronte all’irrompere di Dio, all’imprevedibilità della Sua iniziativa, alla sproporzione di quanto Egli ci chiede, al senso di inadeguatezza che coglie la creatura. Nella voce di Dio che chiama a sé e manda nel mondo viene richiesto qualcosa più grande di noi e delle nostre possibilità, qualcosa che spiazza e supera le nostre aspettative, che fa saltare ogni desiderio di padronanza o pretesa di controllo. È chiesta solo una consegna incondizionata, e quando questa accade, allora il chiamato non è più in balìa delle proprie forze o debolezze, delle sue limitate vedute o delle sue incerte iniziative, ma viene orientato e guidato dalla luce di Dio, dalla forza dello Spirito.L’esperienza del turbamento di fronte alla grandezza di Dio e delle sue richieste è l’esperienza di Mosè, che non si sente autorizzato ad andare dal suo popolo nonostante il comando di Dio (Es 3,11); è l’esperienza di Geremia che si sente troppo giovane e incapace di parlare (Ger 1,6); è l’esperienza di Pietro che per due volte manifesta la sua inadeguatezza: “allontanati da me che sono un peccatore” (Lc 5,8)… “torno a pescare” (Gv 21,3). È anche l’esperienza di Isaia che si sente perduto di fronte alla manifestazione della santità di Dio nel tempio a motivo delle sue “labbra impure” (Is 6,5), così come quella di Amos che paragona al ruggito di un leone la forza della Parola divina da cui si sente afferrato (Am 3,8); ed è pure l’esperienza di Paolo, che sperimenta come caduta e accecamento il capovolgimento esistenziale che deriva dall’incontro con il Risorto (At 9,1-9). È perfino l’esperienza di Maria, che per quanto tutta santa e piena di grazia, al saluto dell’Angelo “rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto” (Lc 1,29). Avviene così in forme e misure diverse in tutte le grandi vocazioni: pur sperimentando il fascino della seduzione di Dio, gli uomini biblici non si lanciano a capofitto nell’avventura della missione, ma si mostrano impauriti ed esitanti di fronte a qualcosa che li eccede.
Il nucleo pasquale di ogni vocazione e missione
Ora, come osserva don Bozzolo nel suo studio sul sogno dei 9 anni, anche nel racconto della vocazione di Don Bosco c’è qualcosa di sorprendente che deve attirare la nostra attenzione: “mentre per i ragazzi il sogno finisce con la festa, per Giovanni termina con lo sgomento e addirittura con il pianto”. Ma come? Una festa che finisce in pianto? E finisce così proprio per Giovanni Bosco, colui che sarà l’apostolo della “santa allegria” e che insegnerà ai ragazzi a “stare molto allegri”? Cerchiamo di comprendere: anzitutto in luce cristiana, e poi nella coloritura salesiana.
La nostra elezione trova le sue radici nell’elezione di Cristo, ma l’Eletto è il Crocifisso, ed è il Crocifisso che infine è il Risorto. Perciò l’esistenza cristiana sarà sempre, in mille modi diversi, esistenza pasquale, intreccio profondo di gioia e di croce, di amore e dolore, di vita e di morte. Bisogna saperlo, per non farsi trovare impreparati di fronte alle prove della vita, alle contrarietà e alle ingiustizie, alle umiliazioni e alle amarezze, altrimenti il cuore si indebolisce o si indurisce, si scoraggia o si ostina, soccombe al peso del male del mondo o dei propri peccati.
Se sfogliamo la Scrittura, vediamo bene che l’amore di Dio, quando si manifesta al mondo, è come una meteora luminosa che incontrando l’atmosfera si incendia. Allora i progenitori rifiutano il paradiso generosamente offerto da Dio. Quando Dio rinnova l’alleanza, ecco che tutti i profeti vengono uccisi. Quando arriva Gesù, compimento di tutte le profezie, si manifesta come “segno di contraddizione” (Lc 2,34). Viene fra i suoi, ma i suoi non lo accolgono (Gv 1,11), e quando dona tutto il suo cuore, gli uomini gli trafiggono il cuore (Gv 19,34). La Parola viene condannata come bestemmia, il Giusto viene ucciso con la morte dell’empio.
In tutto questo, Gesù è lucidissimo, per sé e per noi: le beatitudini partono dall’umiltà e terminano nel martirio, il fascino si capovolge in persecuzione, e questo perché Cristo e il cristiano sono “nel mondo ma non del mondo”, perché il mondo “ama ciò che è suo” (Gv 15,19), perché le tenebre odiano la luce (Gv 3,19). Come Cristo, anche il cristiano, se fa sul serio, se non si allinea al mondo, sarà sempre in qualche modo segno di contraddizione: potrà parlare o tacere, essere di volta in volta mite o combattivo, ma sarà per molti un rimprovero vivente, un ostacolo al proprio modo di pensare e di vivere. D’altra parte, l’annuncio del Vangelo non può mai essere separato dall’appello alla conversione, e queste sono le prime parole del Signore Gesù all’esordio della sua vita pubblica: “il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15). In effetti, tutti i personaggi biblici, da Ezechiele all’Autore della Lettera agli Ebrei, hanno fatto esperienza del dolce-amaro della Parola di Dio, della Parola come spada a due tagli, che punta a guarire non senza ferire: “la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).
La condizione del cristiano è davvero paradossale: vive nel mondo ma è straniero per il mondo, ama il mondo e il mondo lo odia. Gesù, sullo sfondo della Sua gioia, e in vista della Sua croce, lo ha detto chiaramente in molti modi: “se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me” (Gv 15,18); “sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato” (Mt 10,22); “vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo (Gv 16,33). E siamo avvertiti: “guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Lc 6,26). Ma ciò che è decisivo è questo: accettare la condizione di lotta e non smettere di amare. Tanto più che la lotta non è solo con i nemici esterni, ma è sempre anche combattimento spirituale, per non cedere alle proprie cattive tendenze, per non cadere nelle tentazioni del demonio, per diventare sempre più docili allo Spirito. E, infine, la lotta è permanente perché la vocazione si realizza nella missione, e la missione impone sempre il piacere e il dovere dell’evangelizzazione, una misteriosa protezione da parte di Dio e un’inevitabile esposizione al mondo. Tuttavia – come dice san Paolo – “da Lui abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti” (Rm 1,5), ma “non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1Cor 9,16).
Il nucleo salesiano della vocazione e della missione
Il colore salesiano dell’esistenza pasquale è quello di portare le fatiche e le croci custodendo e irradiando la gioia. È possibile, perché la Grazia vale più della vita, perché il Bene è più grande di ogni male, perché il male in fin dei conti è “finito”, mentre il bene rimane in eterno. Il contrasto presente nel sogno fra la gioia dei ragazzi e lo sgomento di Giovanni è dovuto al fatto che la gioia cristiana e l’allegria salesiana non sono ingannevole euforia, puro svago, semplice spensieratezza, ma sono risonanza interiore della bellezza della Grazia, consapevolezza che “il Signore è vicino” (Fil 4,5), che la gioia è il primo dono del Risorto (Gv 20,20) e il primo frutto dello Spirito (Gal 5,22). Dunque, la postura della gioia “potrà essere raggiunta – spiega Bozzolo – solo attraverso impegnative battaglie spirituali, di cui don Bosco dovrà in larga misura pagare il prezzo a beneficio dei suoi ragazzi. Egli rivivrà così su di sé quello scambio di ruoli che affonda le sue radici nel mistero pasquale di Gesù”. Il sogno dei nove anni fa risuonare l’esperienza di Gesù, che “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si è sottoposto alla croce, disprezzando l’ignominia”, ma proprio così “si è assiso alla destra del trono di Dio” (Eb 12,2); e orienta Giovanni alla condizione degli apostoli: «noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati» (1Cor 4,10), ma proprio così «collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24)”.
Alla scuola del sogno dei 9 anni, chiediamoci:
- Come so affrontare il turbamento e l’incertezza legati al mistero della mia vocazione, alle esigenze dei comandamenti e della volontà di Dio, alla grandezza dei suoi doni e delle sue richieste, alla piccolezza della mia persona e della mia risposta?
- Come sto imparando a portare le croci senza perdere la gioia? Su cosa si fonda la mia gioia, e cosa la minaccia? Con quanta umiltà e risolutezza porto avanti i miei combattimenti spirituali? E con quanta umiltà e coraggio mi espongo al compito dell’evangelizzazione?
Don Roberto Carelli – SDB