Il racconto che don Bosco fa nelle Memorie dell’Oratorio del sogno che ebbe a nove anni costituisce uno dei testi più rilevanti della tradizione salesiana. La sua narrazione ha accompagnato in modo vitale la trasmissione del carisma, divenendone uno dei simboli più efficaci e una delle sintesi più eloquenti. Per questo il testo giunge al lettore che si riconosce in quella tradizione spirituale con le caratteristiche di una pagina “sacra”, che rivendica una non comune autorevolezza carismatica ed esercita una consistente energia performativa, toccando gli affetti, muovendo all’azione e generando identità. In essa, infatti, gli elementi costitutivi della vocazione salesiana sono allo stesso tempo fissati in modo autorevole, come un testamento da consegnare alle generazioni future, e ricondotti, attraverso l’esperienza misteriosa del sogno, alla loro origine trascendente. Come nelle grandi pagine bibliche, il movimento in avanti verso il compimento e il richiamo all’Origine s’intrecciano nella narrazione in modo inseparabile.
Di fatto nella ricezione degli eredi, il racconto ha esercitato una ricca storia degli effetti, generando una vera communitas di lettori, che si sono identificati con il suo messaggio. Innumerevoli sono gli uomini e donne, consacrati e laici, che vi hanno trovato ispirazione per il discernimento della loro personale vocazione e per l’attuazione del loro servizio educativo e pastorale. L’ampiezza di questa storia degli effetti istruisce fin da principio chi si dispone ad analizzare il testo circa la delicatezza dell’operazione ermeneutica cui mette mano. Studiare questo sogno significa non soltanto indagare su un accadimento verificatosi circa duecento anni fa nella vita di un ragazzo, ma intervenire criticamente su un vettore spirituale, su un simbolo identificante, su un racconto che per il mondo salesiano ha il peso di un “mito fondativo”. Un racconto non può acquisire una tale forza generativa senza che vi sia una ragione profonda che la giustifichi e lo studioso non può che interrogarsi per coglierne la natura.
La storia degli effetti del sogno, d’altra parte, ha riguardato prima ancora che gli eredi spirituali, l’esperienza stessa del fondatore. Don Bosco racconta che, dalla notte in cui è avvenuto, il sogno gli è rimasto «profondamente impresso nella mente per tutta la vita»,42 tanto più che esso si è «altre volte rinnovato in modo assai più chiaro»,43 suggerendogli l’orientamento della sua esistenza e guidandolo nell’adempimento della sua missione. Nelle Memorie dell’Oratorio, inoltre, egli ricorda lo stato d’animo che lo aveva colto quando, divenuto prete e tornato al paese nella solennità del Corpus Domini per celebrarvi una delle sue prime Messe, era giunto alla borgata dove era nato:
Quando fui vicino a casa e mirai il luogo del sogno fatto all’età di circa nove anni non potei frenare le lacrime e dire: Quanto mai sono meravigliosi i disegni della Divina Provvidenza! Dio ha veramente tolto dalla terra un povero fanciullo per collocarlo coi primari del suo popolo.44
Quando poi nel 1858 si recò a Roma per trattare della fondazione della Congregazione e Pio IX «si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali», don Bosco espose al Papa il sogno, ricevendo l’ordine di «scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione».45 Un’ulteriore conferma del fatto che quell’esperienza notturna è rimasta per tutta la vita di don Bosco un punto di riferimento essenziale si trova in un episodio ben documentato della vecchiaia del santo.46 Don Bosco era a Roma per la solenne consacrazione della Chiesa del Sacro Cuore, della cui costruzione si era fatto carico su richiesta di Leone XIII. La mattina del 16 maggio 1887 si recò a celebrare all’altare di Maria Ausiliatrice, ma durante la celebrazione fu costretto più volte a fermarsi, preso da un’intensa commozione che gli impediva persino di parlare. Rientrato in sacrestia e recuperata la calma abituale, don Viglietti, che lo aveva assistito durante la Messa, interrogò l’anziano sacerdote sul motivo di quelle lacrime ed egli rispose: «Avea […] così viva innanzi ai miei occhi la scena di allora che a dieci anni sognai della Congregazione, e vedea ed udiva così bene i miei fratelli e la mia mamma a discorrere e questionare sul sogno fatto».47 Don Bosco, ormai al termine della sua vita, coglieva finalmente in tutto il suo significato il messaggio che nel sogno gli era stato comunicato come una parola aperta in avanti: «A suo tempo tutto comprenderai». Riportando l’episodio Lemoyne annota: «trascorsi ormai da quel giorno sessantadue anni di fatiche, di sacrifizi, di lotte, ecco che un lampo improvviso gli aveva rivelato nell’erezione della chiesa del Sacro Cuore a Roma il coronamento della missione adombratagli misteriosamente sull’esordire della vita».48
In qualunque modo si debbano intendere i contorni di quell’esperienza onirica infantile e precisare i particolari della sua narrazione, si può dunque condividere pienamente ciò che Stella afferma a proposito del rilievo che essa ebbe nella coscienza di don Bosco:
Questo dei nove anni non fu per don Bosco un sogno come molti altri che certamente avrà avuto nella sua infanzia. A parte i problemi che sono legati ad esso, cioè alla sua rievocazione, ai testi che ce lo tramandano; a parte l’ormai insolubile interrogativo sul tempo in cui effettivamente avvenne, e quelli sulle circostanza che eventualmente lo provocarono e immediatamente fornirono le suggestioni fantastiche; a parte tutto questo, risulta netto che don Bosco ne rimase vivamente colpito; traspare anzi che dovette sentirlo come una comunicazione divina, come qualche cosa – dice egli stesso – che aveva l’apparenza (i segni e le garanzie) del soprannaturale. Per lui fu come un nuovo carattere divino stampato indelebilmente nella sua vita.49
Il sogno dei nove anni, insomma, «condizionò tutto il modo di vivere e di pensare di don Bosco. E in particolare, il modo di sentire la presenza di Dio nella vita di ciascuno e nella storia del mondo».50
Un commento ai temi teologico-spirituali presenti nel sogno dei nove anni potrebbe avere sviluppi tanto ampi da includere una trattazione a tutto campo della “salesianità”. Letto, infatti, a partire dalla sua storia degli effetti, il sogno apre innumerevoli piste di approfondimento dei tratti pedagogici e apostolici che hanno caratterizzato la vita di san Giovanni Bosco e l’esperienza carismatica che da lui ha preso origine. La natura della nostra indagine e la sua collocazione all’interno di un progetto di ricerca più ampio impongono, tuttavia, di limitarsi ad alcuni elementi, incentrando l’attenzione sui temi principali e suggerendo le linee su cui se ne può approfondire la comprensione. Scegliamo dunque di concentrare l’attenzione su cinque piste di riflessione spirituale che riguardano rispettivamente (1) la missione oratoriana, (2) la chiamata all’impossibile, (3) il mistero del Nome, (4) la mediazione materna e, infine, (5) la forza della mansuetudine.
Il sogno dei nove anni è pieno di ragazzi. Essi sono presenti dalla prima all’ultima scena e sono i beneficiari di tutto ciò che avviene. La loro presenza è caratterizzata dall’allegria e dal gioco, che sono tipici della loro età, ma anche dal disordine e da comportamenti negativi. I fanciulli non sono dunque nel sogno dei nove anni l’immagine romantica di un’età incantata, non ancora toccata dai mali del mondo, né corrispondono al mito postmoderno della condizione giovanile, come stagione dell’agire spontaneo e della perenne disponibilità al cambiamento, che dovrebbe essere conservata in un’eterna adolescenza. I ragazzi del sogno sono straordinariamente “veri”, sia quando appaiono con la loro fisionomia, sia quando sono raffigurati simbolicamente sotto forma di animali. Essi giocano e bisticciano, si divertono ridendo e si rovinano bestemmiando, proprio come avviene nella realtà. Non paiono né innocenti, come li immagina una pedagogia spontaneista, né capaci di fare da maestri a se stessi, come li ha pensati Rousseau. Dal momento in cui appaiono, in un “cortile assai spazioso”, che fa presagire i grandi cortili dei futuri oratori salesiani, essi invocano la presenza e l’azione di qualcuno. Il gesto impulsivo del sognatore, però, non è l’intervento giusto; è necessaria la presenza di un Altro.
Con la visione dei fanciulli s’intreccia l’apparizione della figura cristologica, come ormai possiamo apertamente chiamarla. Colui che nel Vangelo ha detto: «Lasciate che i bambini vengano a me» (Mc 10,14), viene a indicare al sognatore l’atteggiamento con cui i ragazzi vanno avvicinati e accompagnati. Egli appare maestoso, virile, forte, con tratti che ne evidenziano chiaramente il carattere divino e trascendente; il suo modo di agire è contrassegnato da sicurezza e potenza e manifesta una piena signoria sulle cose che avvengono. L’uomo venerando, però, non incute paura, ma anzi porta la pace dove prima c’era confusione e schiamazzo, manifesta benevola comprensione nei confronti di Giovanni e lo orienta su una via di mansuetudine e carità.
La reciprocità tra queste figure – i ragazzi da una parte e il Signore (cui si aggiunge poi la Madre) dall’altra – definisce i contorni del sogno. Le emozioni che Giovanni prova nell’esperienza onirica, le domande che pone, il compito che è chiamato a svolgere, il futuro che gli si apre davanti sono totalmente vincolati alla dialettica tra questi due poli. Forse il messaggio più importante che il sogno gli trasmette, quello che probabilmente ha capito per primo perché gli è rimasto impresso nell’immaginazione, prima ancora di comprenderlo in modo riflesso, è che quelle figure si richiamano a vicenda e che egli per tutta la vita non potrà più dissociarle. L’incontro tra la vulnerabilità dei giovani e la potenza del Signore, tra il loro bisogno di salvezza e la sua offerta di grazia, tra il loro desiderio di gioia e il suo dono di vita devono diventare ormai il centro dei suoi pensieri, lo spazio della sua identità. La partitura della sua vita sarà tutta scritta nella tonalità che questo tema generatore gli consegna: modularlo in tutte le sue potenzialità armoniche sarà la sua missione, in cui dovrà riversare tutte le sue doti di natura e di grazia.
Il dinamismo della vita di Giovanni si prospetta dunque nel sogno-visione come un continuo movimento, una sorta di andirivieni spirituale, tra i ragazzi e il Signore. Dal gruppo di fanciulli in mezzo a cui si è buttato con impeto Giovanni deve lasciarsi attirare al Signore che lo chiama per nome, per poi ripartire da Colui che lo invia e andare a mettersi, con ben altro stile, alla testa dei compagni. Anche se dai ragazzi riceve in sogno pugni così forti, da sentirne il male ancora al risveglio, e dall’uomo venerando ascolta parole che lo lasciano interdetto, il suo andare e venire non è un viavai inconcludente, ma un percorso che gradualmente lo trasforma e fa arrivare ai giovani un’energia di vita e di amore.
Che tutto ciò avvenga in un cortile è altamente significativo e ha un chiaro valore prolettico, poiché della missione di don Bosco il cortile oratoriano diventerà il luogo privilegiato e il simbolo esemplare. Tutta la scena è collocata in quest’ambiente, insieme vasto (cortile assai spazioso) e familiare (vicino a casa). Il fatto che la visione vocazionale non abbia come sfondo un luogo sacro o uno spazio celeste, ma l’ambiente in cui i ragazzi vivono e giocano, indica chiaramente che l’iniziativa divina assume il loro mondo come luogo dell’incontro. La missione che viene affidata a Giovanni, anche se è chiaramente indirizzata in senso catechetico e religioso («fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e la preziosità della virtù»), ha come proprio habitat l’universo dell’educazione. L’associazione della figura cristologica con lo spazio del cortile e le dinamiche del gioco, che certamente un ragazzo di nove anni non può aver “costruito”, costituisce una trasgressione dell’immaginario religioso più consueto, la cui forza ispiratrice è pari alla profondità misterica. Essa infatti sintetizza in sé tutta la dinamica del mistero dell’incarnazione, per cui il Figlio prende la nostra forma per poterci offrire la sua, e mette in luce come non vi sia nulla di umano che debba essere sacrificato per far spazio a Dio.
Il cortile dice dunque la vicinanza della grazia divina al “sentire” dei ragazzi: per accoglierla non occorre uscire dalla propria età, trascurarne le esigenze, forzarne i ritmi. Quando don Bosco, ormai adulto, scriverà nel Giovane provveduto che uno degli inganni del demonio è far pensare ai giovani che la santità sia incompatibile con la loro voglia di stare allegri e con l’esuberante freschezza della loro vitalità, non farà che restituire in forma matura la lezione intuita nel sogno e divenuta poi un elemento centrale del suo magistero spirituale. Il cortile dice allo stesso tempo la necessità di intendere l’educazione a partire dal suo nucleo più profondo, che riguarda l’atteggiamento del cuore verso Dio. Lì, insegna il sogno, non vi è solo lo spazio di un’apertura originaria alla grazia, ma anche l’abisso di una resistenza, in cui si annida la bruttezza del male e la violenza del peccato. Per questo l’orizzonte educativo del sogno è francamente religioso, e non solo filantropico, e mette in scena la simbolica della conversion e, e non solo quella dello sviluppo di sé.
Nel cortile del sogno, colmo di ragazzi e abitato dal Signore, si dischiude dunque a Giovanni quella che sarà in futuro la dinamica pedagogica e spirituale dei cortili oratoriani.
Mentre per i ragazzi il sogno finisce con la festa, per Giovanni termina con lo sgomento e addirittura con il pianto. Si tratta di un esito che non può che stupire. Si è soliti pensare, infatti, con qualche semplificazione, che le visite di Dio siano portatrici esclusivamente di gioia e di consolazione. È paradossale dunque che per un apostolo della gioia, per colui che da seminarista fonderà la “società dell’allegria” e che da prete insegnerà ai suoi ragazzi che la santità consiste nello “stare molto allegri”, la scena vocazionale termini con il pianto.
Ciò può certamente indicare che l’allegria di cui si parla non è puro svago e semplice spensieratezza ma risonanza interiore alla bellezza della grazia. Come tale, essa potrà essere raggiunta solo attraverso impegnative battaglie spirituali, di cui don Bosco dovrà in larga misura pagare il prezzo a beneficio dei suoi ragazzi. Egli rivivrà così su di sé quello scambio di ruoli che affonda le sue radici nel mistero pasquale di Gesù e che si prolunga nella condizione degli apostoli: «noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati» (1Cor 4,10), ma proprio così «collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24).
Il turbamento con cui il sogno si chiude, tuttavia, richiama soprattutto la vertigine che i grandi personaggi biblici provano di fronte alla vocazione divina che si manifesta nella loro vita, orientandola in una direzione del tutto imprevedibile e sconcertante. Il Vangelo di Luca afferma che perfino Maria Santissima, alle parole dell’angelo, provò un senso di profondo turbamento interiore («a queste parole ella fu molto turbata» Lc 1,29). Isaia si era sentito perduto di fronte alla manifestazione della santità di Dio nel tempio (Is 6), Amos aveva paragonato al ruggito di un leone (Am 3,8) la forza della Parola divina da cui era stato afferrato, mentre Paolo sperimenterà sulla via di Damasco il capovolgimento esistenziale che deriva dall’incontro con il Risorto. Pur testimoniando il fascino di un incontro con Dio che seduce per sempre, nel momento della chiamata gli uomini biblici sembrano più esitare impauriti di fronte a qualcosa che li eccede, che lanciarsi a capofitto nell’avventura della missione.
Il turbamento che Giovanni sperimenta nel sogno pare un’esperienza analoga. Esso nasce dal carattere paradossale della missione che gli viene assegnata e che egli non esita a definire “impossibile” («Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»). L’aggettivo potrebbe sembrare “esagerato”, come a volte sono le reazioni dei bambini, soprattutto quando esprimono un senso d’inadeguatezza di fronte a un compito impegnativo. Ma questo elemento di psicologia infantile non è sufficiente a illuminare il contenuto del dialogo onirico e la profondità dell’esperienza spirituale che esso comunica. Tanto più che Giovanni ha una vera stoffa da leader e un’ottima memoria, che gli consentiranno nei mesi successivi al sogno di iniziare subito a fare un po’ di oratorio, intrattenendo i suoi amici con giochi da saltimbanco e ripetendo loro per filo e per segno la predica del parroco. Per questo nelle parole con cui dichiara schiettamente di essere «incapace di parlare di religione» ai suoi compagni, sarà bene sentir risuonare l’eco lontana dell’obiezione di Geremia alla vocazione divina: «non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6).
Non è sul piano delle attitudini naturali che si gioca qui la richiesta dell’impossibile, bensì sul piano di ciò che può rientrare nell’orizzonte del reale, di ciò che ci si può attendere in base alla propria immagine del mondo, di ciò che rientra nel limite dell’esperienza. Oltre questa frontiera, si apre appunto la regione dell’impossibile, che è però, biblicamente, lo spazio dell’agire di Dio. “Impossibile” è per Abramo avere un figlio da una donna sterile e anziana come Sara; “impossibile” è per la Vergine concepire e dare al mondo il Figlio di Dio fatto uomo; “impossibile” pare ai discepoli la salvezza, se è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli. Eppure Abramo si sente rispondere: «C’è forse qualcosa di impossibile per il Signore?» (Gen 18,14); l’angelo dice a Maria che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37); e Gesù risponde agli discepoli increduli che «ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27).
Il luogo supremo in cui si pone la questione teologica dell’impossibile è il momento decisivo della storia della salvezza, ossia il dramma pasquale, in cui la frontiera dell’impossibile da superare è lo stesso abisso tenebroso del male e della morte. Com’è possibile infatti vincere la morte? Non è essa stessa l’emblema tassativo dell’impossibilità, il limite invalicabile di ogni possibilità umana, la potenza che domina sul mondo, designandone lo scacco? E la morte di Gesù non sigilla forse tale limite in modo irrevocabile? «Con questa morte, più che con qualsiasi altra, la morte trionfa come fine di ogni possibilità, poiché con la morte del Santo si tratta dell’uccisione della possibilità di tutto e di tutti».51 Eppure proprio nel grembo di quell’impossibilità suprema, Dio ha suscitato la novità assoluta. Risuscitando il Figlio fatto uomo nella potenza dello Spirito, Egli ha capovolto radicalmente ciò che noi chiamiamo il mondo del possibile, sfondando il limite entro cui noi rinchiudiamo la nostra attesa di realtà. Poiché neppure l’impotenza della croce può impedire il dono del Figlio, l’impossibile della morte viene superato dall’inedito della vita risorta, che dà origine alla creazione definitiva e fa nuove tutte le cose. D’ora in poi e “una volta per tutte” non è più la vita a essere sottomessa alla morte, ma la morte alla vita.
È in questo spazio generato dalla risurrezione che l’impossibile diventa effettiva realtà, è in esso che l’uomo venerando del sogno, splendente di luce pasquale, chiede a Giovanni di rendere possibile l’impossibile. E lo fa con una formula sorprendente:
«Perché tali cose ti sembrano impossibili devi renderle possibili coll’ubbidienza».
Sembrano le parole con cui i genitori esortano i bambini, quando sono riluttanti, a fare qualcosa di cui non si sentono capaci o che non hanno voglia di fare. «Obbedisci e vedrai che ci riesci» dicono allora mamma o papà: la psicologia del mondo infantile è perfettamente rispettata. Ma sono anche, e assai più, le parole con cui il Figlio rivela il segreto dell’impossibile, un segreto che è tutto nascosto nella sua obbedienza. L’uomo venerando che comanda una cosa impossibile, sa attraverso la sua umana esperienza che l’impossibilità è il luogo in cui il Padre opera con il suo Spirito, a condizione che gli si apra la porta con la propria obbedienza.
Giovanni ovviamente rimane turbato e sbalordito, ma è l’atteggiamento che l’uomo sperimenta di fronte all’impossibile pasquale, di fronte cioè al miracolo dei miracoli, di cui ogni altro evento salvifico è segno. Dopo un’acuta analisi della fenomenologia dell’impossibile, J.L. Marion afferma: «Al mattino di Pasqua, solo il Cristo può ancora dire Io: così che, davanti a Lui, ogni Io trascendentale deve riconoscersi come […] un me interrogato, perché sconcertato».52 La Pasqua fa sì che ciò che di più reale c’è nella storia sia qualcosa che l’Io incredulo considera a priori impossibile. L’impossibile di Dio, per essere riconosciuto nella sua realtà, richiede un cambiamento di orizzonte, che si chiama fede.
Non stupisce dunque che nel sogno la dialettica del possibile-impossibile s’intrecci con l’altra dialettica, quella della chiarezza e della oscurità. Essa caratterizza anzitutto la stessa immagine del Signore, la cui faccia è talmente luminosa che Giovanni non riesce a guardarla. Su quel volto splende, infatti, una luce divina che paradossalmente produce oscurità. Vi sono poi le parole dell’uomo e della donna che, mentre spiegano in modo limpido ciò che Giovanni deve fare, lo lasciano però confuso e spaventato. Vi è infine un’illustrazione simbolica, attraverso la metamorfosi degli animali, che però conduce a un’incomprensione ancora maggiore. Giovanni non può che chiedere ulteriori chiarimenti: «pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare», ma la risposta che ottiene dalla donna di maestoso aspetto rinvia in avanti il momento della comprensione: «A suo tempo tutto comprenderai».
Ciò significa certamente che solo attraverso l’esecuzione di ciò che del sogno è già afferrabile, ossia attraverso l’obbedienza possibile, si dischiuderà in modo più ampio lo spazio per chiarirne il messaggio. Esso non consiste, infatti, semplicemente in un’idea da spiegare, ma in una parola performativa, una locuzione efficace, che proprio realizzando la propria potenza operativa manifesta il suo senso più profondo.
Questa dialettica di luce e oscurità e la forma pratica di accesso alla verità che vi corrisponde sono gli elementi che caratterizzano la struttura teologale dell’atto di fede. Credere, infatti, significa camminare in una nube luminosa, che indica all’uomo la strada da percorrere ma contemporaneamente gli sottrae la possibilità di dominarla con lo sguardo. Camminare nella fede è camminare come Abramo che «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8); non però nel senso che partì all’avventura, muovendosi a casaccio, ma nel senso che partì in obbedienza «per un luogo che doveva ricevere in eredità». Egli non poteva conoscere in anticipo la terra che gli era promessa, perché la sua disponibilità e consegna interiore contribuivano realmente a farla esistere come tale, come terra dell’incontro e dell’alleanza con Dio, e non solo come uno spazio geografico da raggiungere in modo materiale. Le parole di Maria a Giovanni – «a suo tempo tutto comprenderai» – non sono dunque solo un benevolo incoraggiamento materno, come quello che le mamme danno ai loro figli quando non possono spiegare di più, ma contengono realmente il massimo di luce che può essere offerto a chi deve camminare nella fede.
Giunti a questo punto della riflessione, siamo in grado di interpretare meglio un altro elemento importante dell’esperienza onirica. Si tratta del fatto che al centro della duplice tensione tra possibile e impossibile e tra conosciuto e sconosciuto, e anche, materialmente, al centro della narrazione del sogno, vi sia il tema del Nome misterioso dell’uomo venerando. Il fitto dialogo della sezione III è, infatti, intessuto di domande che ribattono lo stesso tema: «Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»; «Chi siete voi che parlate in questo modo?», e infine: «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome». L’uomo venerando dice a Giovanni di chiedere il Nome a sua madre, ma in realtà quest’ultima non glielo dirà. Esso resta fino alla fine avvolto nel mistero.
Abbiamo già accennato, nella parte dedicata a ricostruire lo sfondo biblico del sogno, che il tema del Nome è strettamente correlato all’episodio della vocazione di Mosè al roveto ardente (Es 3). Questa pagina costituisce uno dei testi centrali della rivelazione veterotestamentaria e pone le basi di tutto il pensiero religioso di Israele. André LaCoque ha proposto di definirla “rivelazione delle rivelazioni”, perché costituisce il principio di unità della struttura narrativa e prescrittiva che qualifica la narrazione dell’Esodo, cellula-madre dell’intera Scrittura.53 È importante notare come il testo biblico articoli in stretta unità la condizione di schiavitù del popolo in Egitto, la vocazione di Mosè e la rivelazione teofanica. La rivelazione del Nome di Dio a Mosè non avviene come la trasmissione di un’informazione da conoscere o di un dato da acquisire, ma come la manifestazione di una presenza personale, che intende suscitare una relazione stabile e generare un processo di liberazione. In questo senso la rivelazione del Nome divino è orientata in direzione dell’alleanza e della missione.54 «Il Nome è insieme teofanico e performativo, poiché quelli che lo ricevono non sono semplicemente introdotti nel segreto divino, ma sono i destinatari di un atto di salvezza».55
Il Nome, infatti, a differenza del concetto, non designa meramente un’essenza da pensare, ma un’alterità cui riferirsi, una presenza da invocare, un soggetto che si propone come vero interlocutore dell’esistenza. Pur implicando l’annuncio di un’incomparabile ricchezza ontologica, quella stessa dell’Essere che non può mai essere adeguatamente definito, il fatto che Dio si riveli come un “Io” indica che solo attraverso la relazione personale con Lui sarà possibile accedere alla sua identità, al Mistero dell’Essere che Egli è. La rivelazione del Nome personale è dunque un atto di parola che interpella il destinatario, chiedendogli di situarsi nei confronti del parlante. Solo così, infatti, è possibile coglierne il senso. Tale rivelazione, inoltre, si pone esplicitamente come fondamento per la missione liberatrice che Mosè deve realizzare: «Io-sono mi ha mandato a voi» (Es 3,14). Presentandosi come un Dio personale, e non un Dio legato a un territorio, e come il Dio della promessa, e non puramente come il signore dell’immutabile ripetizione, Jahwè potrà sostenere il cammino del popolo, il suo viaggio verso la libertà. Egli ha dunque un Nome che si fa conoscere in quanto suscita alleanza e muove la storia.
Tale Nome sarà però pienamente rivelato soltanto attraverso Gesù. La cosiddetta preghiera sacerdotale di Gesù, che leggiamo in Gv 17, identifica nella rivelazione del Nome di Dio il cuore della missione cristologica (v.6,11,12,26). In questa pagina, come afferma Ratzinger,
«Cristo stesso ci appare quasi come il roveto ardente, dal quale fluisce sugli uomini il nome di Dio».56
In Lui Dio diviene pienamente invocabile, poiché in Lui è entrato pienamente in coesistenza con noi, abitando la nostra storia e conducendola nel suo esodo definitivo. Il paradosso qui è che il Nome divino che viene rivelato da Gesù coincide con il Mistero stesso della sua persona. Gesù infatti può attribuire a sé il nome divino – “Io sono” – rivelato a Mosè nel roveto. Il Nome divino viene così rivelato nella sua inimmaginabile profondità trinitaria, di cui solo la vicenda pasquale manifesterà in pienezza il Mistero. Per la sua obbedienza fino alla morte di croce, Gesù infatti è esaltato nella gloria e riceve un Nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché dinnanzi a Lui ogni ginocchio si pieghi, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Solo nel Nome di Gesù, dunque, c’è salvezza, perché nella sua storia Dio ha pienamente compiuto la rivelazione del proprio mistero trinitario.
«Ditemi il vostro nome»: questa domanda di Giovanni non può ricevere risposta semplicemente attraverso una formula, un nome inteso come etichetta esteriore della persona. Per conoscere il Nome di Colui che parla nel sogno non basta ricevere un’informazione, ma è necessario prendere posizione di fronte al suo atto di parola. È necessario cioè entrare in quel rapporto di intimità e di consegna, che i Vangeli descrivono come un “rimanere” presso di Lui. Per questo quando i primi discepoli interrogano Gesù sulla sua identità – «Maestro, dove abiti?» o alla lettera «dove rimani?» – egli risponde «Venite e vedrete» (Gv 1,38s.). Solo “rimanendo” con lui, abitando nel suo mistero, entrando nella sua relazione con il Padre, si può conoscere realmente Chi egli sia.
Il fatto che il personaggio del sogno non risponda a Giovanni con un appellativo, come noi faremmo presentando ciò che c’è scritto sulla nostra carta di identità, indica che il suo Nome non può essere conosciuto come una pura designazione esterna, ma mostra la sua verità solo quando sigilla un’esperienza di alleanza e di missione. Giovanni dunque conoscerà quel Nome proprio attraversando la dialettica del possibile e dell’impossibile, della chiarezza e dell’oscurità; lo conoscerà realizzando la missione oratoriana che gli è stata affidata. Lo conoscerà, dunque, portandoLo dentro di sé, grazie a una vicenda vissuta come storia abitata da Lui. Un giorno Cagliero testimonierà di don Bosco che il suo modo di amare era «tenerissimo, grande, forte, ma tutto spirituale, puro, veramente casto», tanto che «dava un’idea perfetta dell’amore che il Salvatore portava ai fanciulli».57 Questo indica che il Nome dell’uomo venerando, il cui volto era tanto luminoso da accecare la vista del sognatore, è realmente entrato come un sigillo nella vita di don Bosco. Egli ne ha avuta la experientia cordis attraverso il cammino della fede e della sequela. È questa l’unica forma in cui la domanda del sogno poteva trovare risposta.
Nell’incertezza circa Colui che lo invia, l’unico punto fermo cui Giovanni può appigliarsi nel sogno è il rimando a una madre, anzi a due: quella dell’uomo venerando e la propria. Le risposte alle sue domande, infatti, suonano così:
«Io sono il figlio di colei che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno» e poi «il mio nome dimandalo a Mia Madre».
Che lo spazio del chiarimento possibile sia mariano e materno è indubbiamente un elemento su cui merita riflettere. Maria è il luogo in cui l’umanità realizza la più alta corrispondenza alla luce che viene da Dio e lo spazio creaturale in cui Dio ha consegnato al mondo la sua Parola fatta carne. È altresì indicativo che al risveglio dal sogno, colei che ne intuisce al meglio il senso e la portata sia la mamma di Giovanni, Margherita. Su livelli diversi, ma secondo una reale analogia, la Madre del Signore e la madre di Giovanni rappresentano il volto femminile della Chiesa, che si mostra capace di intuizione spirituale e costituisce il grembo in cui le grandi missioni vengono gestate e partorite.
Non c’è dunque da stupirsi che le due madri siano accostate tra loro e proprio nel punto in cui si tratta di andare al fondo della questione che il sogno presenta, ossia la conoscenza di Colui che affida a Giovanni la missione di una vita. Come già per il cortile vicino a casa, così anche per la madre, nell’intuizione onirica gli spazi dell’esperienza più familiare e quotidiana si dischiudono e mostrano nelle loro pieghe un’insondabile profondità. I gesti comuni della preghiera, il saluto angelico che era usuale tre volte al giorno in ogni famiglia, improvvisamente appaiono per ciò che sono: dialogo con il Mistero. Giovanni scopre così che alla scuola di sua madre ha già instaurato un legame con la Donna maestosa, che può spiegargli tutto. Vi è già dunque una sorta di canale femminile che consente di superare l’apparente distanza che c’è tra «un povero ed ignorante fanciullo» e l’uomo «nobilmente vestito». Tale mediazione femminile, mariana e materna, accompagnerà Giovanni per tutta la vita e farà maturare in lui una particolare disposizione a venerare la Vergine con il titolo di Aiuto dei cristiani, divenendone l’apostolo per i suoi ragazzi e per la Chiesa intera.
Il primo aiuto che la Madonna gli offre è quello di cui un bambino ha naturalmente bisogno: quello di una maestra. Ciò che essa devi insegnargli è una disciplina che rende veramente sapienti, senza cui «ogni sapienza diviene stoltezza».
Si tratta della disciplina della fede, che consiste nel dare credito a Dio e nell’obbedire anche di fronte all’impossibile e all’oscuro. Maria la trasmette come l’espressione più alta della libertà e come la sorgente più ricca della fecondità spirituale e educativa. Portare in sé l’impossibile di Dio e camminare nell’oscurità della fede è, infatti, l’arte in cui la Vergine eccelle al di sopra di ogni creatura.
Essa ne ha fatto un arduo tirocinio nella sua peregrinatio fidei, segnata non di rado dal buio e dall’incomprensione. Basti pensare all’episodio del ritrovamento di Gesù dodicenne nel Tempio (Lc 2,41-50). Alla domanda della madre: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», Gesù risponde in modo sorprendente: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». E l’evangelista annota: «Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro». Meno ancora probabilmente Maria capì quando la sua maternità, annunciata solennemente dall’alto, le fu per così dire espropriata perché divenisse comune eredità della comunità dei discepoli: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). Ai piedi della croce poi, quando si fece buio su tutta la terra, l’Eccomi pronunciato nel momento della chiamata prese i contorni della rinuncia estrema, la separazione dal Figlio al cui posto doveva ricevere dei figli peccatori per i quali lasciarsi trapassare il cuore dalla spada.
Quando dunque la donna maestosa del sogno inizia a svolgere il suo compito di maestra e, ponendo una mano sul capo di Giovanni, gli dice: «A suo tempo tutto comprenderai», essa trae queste parole dalle viscere spirituali della fede che ai piedi della croce l’ha resa madre di ogni discepolo. Sotto la sua disciplina Giovanni dovrà restare per tutta la vita: da giovane, da seminarista, da sacerdote. In modo particolare dovrà rimanervi quando la sua missione prenderà contorni che al momento del sogno non poteva immaginare; quando, cioè, egli dovrà divenire nel cuore della Chiesa fondatore di famiglie religiose destinate alla gioventù di ogni continente. Allora Giovanni, divenuto ormai don Bosco, capirà anche il senso più profondo del gesto con cui l’uomo venerando gli ha dato sua madre come “maestra”.
Quando un giovane entra in una famiglia religiosa, trova ad accoglierlo un maestro di noviziato, cui viene affidato perché lo introduca nello spirito dell’Ordine e lo aiuti ad assimilarlo. Quando si tratta di un Fondatore, che deve ricevere dallo Spirito Santo la luce originaria del carisma, il Signore dispone che sia la sua stessa madre, Vergine della Pentecoste e modello immacolato della Chiesa, a fargli da Maestra. Lei sola, la “piena di grazia”, comprende infatti dal di dentro tutti i carismi, come una persona che conosca tutte le lingue e le parli come fossero la propria.
In effetti la donna del sogno sa indicargli in modo preciso e appropriato le ricchezze del carisma oratoriano. Essa non aggiunge nulla alle parole del Figlio, ma le illustra con la scena degli animali selvaggi divenuti agnelli mansueti e con l’indicazione delle qualità che Giovanni dovrà maturare per svolgere la sua missione: «umile, forte, robusto». In questi tre aggettivi, che designano il vigore dello spirito (l’umiltà), del carattere (la forza) e del corpo (la robustezza), c’è una grande concretezza. Sono i consigli che darebbe a un giovane novizio chi ha una lunga esperienza di oratorio e sa ciò che richiede il “campo” in cui si deve “lavorare”. La tradizione spirituale salesiana ha custodito con cura le parole di questo sogno che si riferiscono a Maria. Le Costituzioni salesiane vi alludono in modo evidente quando affermano: «La Vergine Maria ha indicato a Don Bosco il suo campo di azione tra i giovani»,58 o ricordano che «guidato da Maria che gli fu Maestra, don Bosco visse nell’incontro con i giovani del primo oratorio un’esperienza spirituale ed educativa che chiamò Sistema Preventivo».59
Don Bosco riconobbe a Maria un ruolo determinante nel suo sistema educativo, vedendo nella sua maternità l’ispirazione più alta di ciò che significa “prevenire”.
Il fatto che Maria sia intervenuta fin dal primo momento della sua vocazione carismatica, che essa abbia avuto un ruolo così centrale in questo sogno, farà per sempre comprendere a don Bosco che essa appartiene alle radici del carisma e che ove non le sia riconosciuto questo ruolo ispiratore, il carisma non è inteso nella sua genuinità. Data per Maestra a Giovanni in questo sogno, essa dovrà esserlo anche per tutti coloro che ne condividono la vocazione e la missione. Come i successori di don Bosco non si sono mai stancati di affermare, la «vocazione salesiana è inspiegabile, tanto nella sua nascita come nel suo sviluppo e sempre, senza il concorso materno e ininterrotto di Maria».60
«Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici»: queste parole sono senza dubbio l’espressione più nota del sogno dei nove anni, quella che in qualche modo ne sintetizza il messaggio e ne trasmette l’ispirazione. Sono anche le prime parole che l’uomo venerando dice a Giovanni, interrompendo il suo sforzo violento di mettere fine al disordine e alle bestemmie dei suoi compagni. Non si tratta solo di una formula che trasmette una sentenza sapienziale sempre valida, ma di un’espressione che precisa le modalità esecutive di un ordine («mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole») con cui, come si è detto, viene riorientato il movimento intenzionale della coscienza del sognatore. La foga delle percosse deve divenire lo slancio della carità, l’energia scomposta di un intervento repressivo deve lasciar spazio alla mansuetudine.
Il termine “mansuetudine” viene ad avere qui un peso rilevante, che colpisce ancora di più se si pensa che l’aggettivo corrispondente sarà usato alla fine del sogno per descrivere gli agnelli che fan festa intorno al Signore e a Maria. L’accostamento suggerisce un’osservazione che non pare priva di pertinenza: perché possano divenire “mansueti” agnelli coloro che erano animali feroci, bisogna che divenga mansueto anzitutto il loro educatore. Entrambi, seppur a partire da punti diversi, devono compiere una metamorfosi per entrare nell’orbita cristologica della mitezza e della carità. Per un gruppo di ragazzi scalmanati e rissosi è facile capire che cosa esiga questo cambiamento. Per un educatore forse è meno evidente. Egli, infatti, si pone già sul versante del bene, dei valori positivi, dell’ordine e della disciplina: quale cambiamento gli può essere chiesto?
Si pone qui un tema che nella vita di don Bosco avrà uno sviluppo decisivo, anzitutto sul piano dello stile dell’azione e, in certa misura, anche su quello di una riflessione teorica. Si tratta dell’orientamento che conduce don Bosco a escludere categoricamente un sistema educativo basato sulla repressione e sui castighi, per scegliere con convinzione un metodo che è tutto basato sulla carità e che don Bosco chiamerà “sistema preventivo”. Di là delle diverse implicanze pedagogiche che derivano da questa scelta, per le quali rimandiamo alla ricca bibliografia specifica, interessa qui evidenziare la dimensione teologico-spirituale che è sottesa a questo indirizzo, di cui le parole del sogno costituiscono in qualche modo l’intuizione e l’innesco.
Ponendosi dalla parte del bene e della “legge”, l’educatore può essere tentato di impostare la sua azione con i ragazzi secondo una logica che mira a far regnare l’ordine e la disciplina essenzialmente attraverso regole e norme. Eppure anche la legge porta dentro di sé un’ambiguità che la rende insufficiente a guidare la libertà, non solo per i limiti che ogni regola umana porta dentro di sé, ma per un limite che ultimamente è di ordine teologale. Tutta la riflessione paolina è una grande meditazione su questo tema, poiché Paolo aveva percepito nella sua esperienza personale che la legge non gli aveva impedito di essere «un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1Tim 1,13). La stessa Legge data da Dio, insegna la Scrittura, non basta a salvare l’uomo, se non vi è un altro Principio personale che la integri e la interiorizzi nel cuore dell’uomo. Paul Beauchamp riassume felicemente questa dinamica quando afferma: «La Legge è preceduta da un Sei amato e seguita da un Amerai. Sei amato: fondazione della legge, e Amerai: il suo superamento».61 Senza questa fondazione e questo superamento, la legge porta in sé i segni di una violenza che rivela la sua insufficienza a generare quel bene che essa, pure, ingiunge di compiere. Per tornare alla scena del sogno, i pugni e le percosse che Giovanni dà in nome di un sacrosanto comandamento di Dio, che proibisce la bestemmia, rivelano l’insufficienza e l’ambiguità di ogni slancio moralizzatore che non sia interiormente riformato dall’alto.
Occorre dunque anche per Giovanni, e per coloro che apprenderanno da lui la spiritualità preventiva, la conversione a una logica educativa inedita, che va oltre il regime della legge. Tale logica è resa possibile solo dallo Spirito del Risorto, effuso nei nostri cuori. Solo lo Spirito, infatti, consente di passare da una giustizia formale ed esteriore (sia essa quella classica della “disciplina” e della “buona condotta” o quella moderna delle “procedure” e degli “obiettivi raggiunti”) a una vera santità interiore, che compie il bene perché ne è interiormente attratta e guadagnata. Don Bosco mostrerà di avere questa consapevolezza quando nel suo scritto sul Sistema preventivo dichiarerà francamente che esso è tutto basato sulle parole di san Paolo: «Charitas benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet».
Solo la carità teologale, che ci rende partecipi della vita di Dio, è capace di imprimere all’opera educativa il tratto che ne realizza la singolare qualità evangelica. Non per nulla il Nuovo Testamento identifica nella mitezza e nella mansuetudine i tratti distintivi della “sapienza che viene dall’alto”: essa «anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera» (Gc 3,17). Per questo per coloro che la praticano, facendo opera di pace, «viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (Gc 3,18). La “mansuetudine”, o con linguaggio salesiano la “amorevolezza”, che caratterizza tale sapienza è il segno qualificante di un cuore che è passato attraverso una vera trasformazione pasquale, lasciandosi spogliare di ogni forma di violenza.
«Non colle percosse»: la forza di questo imperativo iniziale, cui forse abbiamo fatto troppo l’orecchio per coglierne il carattere d’ingiunzione, si staglia come un’eco delle parole più forti del Vangelo: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio» (Mt 5,39) o «Rimetti la spada nel fodero» (Mt 26,52; cfr. Gv 18,11). Esso rimanda a uno dei tratti che qualificano l’inaudita novità dell’evento cristiano, quello per cui l’assolutezza della sua pretesa veritativa è espressa unicamente nella forma dell’agape, ossia del dono di sé per la vita dell’altro. A partire dalle parole iniziali del sogno veniamo così a trovarci nel cuore stesso della rivelazione cristiana, lì dove è questione del Volto autentico di Dio e della conversione che esso comporta. Lo “stile” dell’educazione cristiana, la sua capacità di generare pratiche e atteggiamenti realmente radicati nell’evento cristologico, si gioca esattamente sulla corrispondenza con quel Volto.
La grammatica religiosa, da sola, non è capace di onorarlo. La vicenda di Gesù mostra con tutta evidenza che anche dentro quella grammatica, con i suoi codici e i suoi riti, le sue regole e le sue istituzioni, può mettere radici qualcosa che non viene da Dio e che anzi gli fa resistenza e gli si oppone. L’evento cristologico viene proprio a fare esplodere queste contraddizioni interne alla pratica del sacro così come i figli di Adamo la trasmettono ai loro figli, adeguandola ai loro standard di giustizia e di punizione; pronti, in nome della Legge, a lapidare l’adultera e a crocifiggere il Santo di Dio.
A fronte di questo modo distorto di intendere la religione, Gesù è venuto a inaugurare un altro Regno, di cui egli è il Signore e di cui il suo ingresso messianico a Gerusalemme rivela in modo emblematico la logica. Entrando nella Città santa in groppa a un asinello, Gesù si presenta come il re-messia che non conquista gli uomini con le armi e gli eserciti, ma solo con la forza mite della verità e dell’amore. Il dono della sua vita, che egli compirà nella città di Davide, è l’unica via attraverso cui il Regno di Dio può venire nel mondo. La sua mansuetudine di Agnello pasquale è l’unica forza con cui il Padre vuole guadagnare i nostri cuori, mostrando l’affidabilità del legame e la giustizia della corrispondenza.
«Non colle percosse ma colla mansuetudine dovrai guadagnare questi tuoi amici». Leggere questa parole sullo sfondo della rivelazione evangelica significa riconoscere che attraverso di esse viene consegnato a Giovanni un movimento interiore che, nella sua genuinità incontaminata, può sorgere solo dal Cuore di Cristo.62 «Non colle percosse ma colla mansuetudine» è la traduzione educativa dello stile “personalissimo” di Gesù.
Naturalmente “guadagnare” i giovani in questo modo è un compito assai esigente. Implica di non cedere alla freddezza di un’educazione fondata solo sulle regole, né al buonismo di una proposta che rinuncia a denunciare la “bruttezza del peccato” e a presentare la “preziosità della virtù”. Conquistare al bene mostrando semplicemente la forza della verità e dell’amore, testimoniata attraverso la dedizione “fino all’ultimo respiro”, è la figura di un metodo educativo che è al contempo una vera e propria spiritualità.
Non c’è da stupirsi che Giovanni nel sogno faccia resistenza a entrare in questo movimento e chieda di comprendere bene chi è Colui che lo imprime. Quando però avrà capito, facendo diventare quel messaggio dapprima un’istituzione oratoriana e poi anche una famiglia religiosa, penserà che raccontare il sogno in cui ha appreso quella lezione sarà il modo più bello per condividere con i suoi figli il significato più autentico della sua esperienza. È Dio che ha guidato ogni cosa, è Lui stesso che ha impresso il movimento iniziale di quello che sarebbe divenuto il carisma salesiano.
42 MO 34s.
43 MO 84. Il testo completo recita: «Intanto si avvicinava la fine dell’anno di Retorica, epoca in cui gli studenti sogliono deliberare intorno alla loro vocazione. Il sogno di Murialdo mi stava sempre impresso; anzi mi si era altre volte rinnovato in modo assai più chiaro, per cui, volendoci prestar fede, doveva scegliere lo stato ecclesiastico; cui appunto mi sentiva propensione: ma non volendo credere ai sogni, e la mia maniera di vivere, certe abitudini del mio cuore, e la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato, rendevano dubbiosa e assai difficile quella deliberazione».
44 MO 111.
45 MO 37. La prima visita di don Bosco a Roma avvenne tra il 21 febbraio e il 14 aprile 1858. Egli incontrò il Papa più volte, il 9, il 21 (o 23) marzo e il 6 aprile. Secondo il Lemoyne fu nel secondo incontro (21 marzo) che il Papa ascoltò il racconto del sogno e ordinò a don Bosco di scriverlo. Su questo viaggio cfr. P. Braido, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, LAS, Roma 2003, I, 378-390.
46 Stella afferma che di quest’avvenimento possediamo «solide testimonianze» (P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. I. Vita e opere, LAS, Roma 1979, 32).
47 C.M. Viglietti, Cronaca di don Bosco. Prima redazione (1885-1888). Introducción, texto crítico y notas por Pablo Marín Sánchez, LAS, Roma 2009, 207.
48 MB XVIII, 341.
49 P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. I. Vita e opere, LAS, Roma 1979, 30.
50 P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. I. Vita e opere, LAS, Roma 1979, 31s.
51 J.L. Marion, Nulla è impossibile a Dio, «Communio» n. 107 (1989) 57-73, 62.
52 Ibi, 72.
53 A. LaCocque, La révélation des révélations: Exode 3,14, in P. Ricoeur – A. LaCocque, Penser la Bible, Seuil, Paris 1998, 305.
54 Con riferimento a Es 3,15, in cui il Nome divino è unita al singolare umano «tu dirai», A. LaCocque afferma: «Il più grande dei paradossi è che colui che solo ha il diritto di dire “Io”, che è l’unico ’ehjeh, ha un nome che include un seconda persona, un “tu”» (A. LaCocque, La révélation des révélations: Exode 3,14, 315).
55 A. Bertuletti, Dio, il mistero dell’unico, 354.
56 J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1971, 93.
57 Copia Publica Transumpti Processus Ordinaria, 1146r.
58 Cost art. 8.
59 Cost art. 20.
60 E. Viganò, Maria rinnova la Famiglia Salesiana di don Bosco, ACG 289 (1978) 1-35, 28. Per una ricezione critica della devozione mariana nella storia delle Costituzioni dei Salesiani, cf. A. van Luyn, Maria nel carisma della “Società di San Francesco di Sales”, in Aa.Vv., La Madonna nella “Regola” della Famiglia Salesiana, Roma, LAS, 1987, 15-87.
61 P. Beauchamp, La legge di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000, 116.
62 Per questo l’art. 11 delle Costituzioni afferma che «lo spirito salesiano trova il suo modello e la sua sorgente nel cuore stesso di Cristo, apostolo dl Padre», precisando che esso si rivela nell’atteggiamento del «Buon Pastore che conquista con la mitezza e il dono di sé».