1. Vocazione e missione: la presenza del mistero
Nel sogno dei 9 anni, che sta all’origine di tutta la missione salesiana, Giovanni sperimenta quello che la Bibbia attesta in tutte le storie di vocazione, soprattutto quelle di speciale consacrazione: un mix di stupore e di turbamento a motivo della sproporzione fra le possibilità dell’uomo e ciò che all’uomo sembra impossibile, fra ciò che è naturale e ciò che è soprannaturale, fra l’uomo carnale e l’uomo spirituale, fra la logica del calcolo e quella della gratuità, fra le poche risorse dell’uomo e la sovrabbondanza dei doni di Dio. La dialettica di possibile e impossibile viene poi sperimentata come dialettica fra chiarezza e oscurità, da cui tutto il tema della fede e la necessità del discernimento: “non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio” (1Gv 4,1), ed “esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono” (1Ts 5,21). Inevitabile, perché nelle cose di Dio comprendere non è il primo passo, caso mai l’ultimo: il primo è riconoscere e obbedire alla volontà di Dio. “A suo tempo tutto comprenderai”, viene detto amorevolmente al piccolo Giovanni.
Le due dialettiche si manifestano ogni volta che il mistero di Dio si rende presente alla coscienza dell’uomo. Poiché l’ispirazione divina è più grande di noi ed eccede le possibilità della nostra ragione, si pone subito la doppia domanda sulla sua sorgente e sul suo contenuto. Infatti, nel sogno, Giovanni vuole sapere chi è che gli parla e come sia possibile ciò che gli viene chiesto: “chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?”. Interessante è esaminare la risposta dei due misteriosi personaggi. Ma intanto diciamocelo: nessun cammino spirituale decolla e matura se non si espone al mistero di Dio, se non si lascia spiazzare dal suo carattere soprannaturale, se resta appoggiato alle proprie doti e ai propri limiti naturali, se cioè mette limiti alla provvidenza, mortificando così le proprie possibilità. Su questo punto, il Signore è stato chiaro, e per due volte nel Vangelo di Matteo ripete: “a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13,12 e 25,29). Succede però troppo spesso che molti slanci spirituali, così come molte conversioni, restano mortificati da considerazioni o troppo materiali o troppo mentali. Per questo don Bosco dirà ai suoi giovani: “bisogna darsi a Dio per tempo”, altrimenti il cuore si riempie di “se” e di “ma” che compromettono il sogno di Dio! Detto diversamente: va bene guardarsi “dentro”, ma non va mai bene guardarsi “addosso”: altro è il raccoglimento della preghiera che riconosce la voce di Dio, altro è il ripiegamento narcisistico su di sé.
Anche Giovanni, nonostante tutti i segni soprannaturali, ha fatto la sua bella fatica a comprendere la propria vocazione e missione. Infatti, nel sogno dei 9 anni Giovanni prova una tensione d’animo sempre crescente, che denota la fatica nel dar credito alle ispirazioni. Le domande sono incalzanti: “chi siete voi… dove, con quali mezzi?… chi siete voi?… ditemi il vostro nome”. Come si vede, gli interrogativi riguardano la missione e si concentrano sull’identità del mandante e sulla fattibilità del mandato. Le risposte, però, non cancellano il clima di mistero: non danno informazioni, ma chiedono un cambiamento nel modo di pensare e di agire.
La tensione provocata dalla richiesta di cambiamento diventa resistenza interiore, e prende la forma di una duplice obiezione: l’inadeguatezza (“povero e ignorante fanciullo, incapace di parlare di religione”) e la difficoltà a comprendere (“io non sapeva quale cosa si volesse significare”). Alla prima obiezione si dà risposta indicando i mezzi che rendono possibile l’impossibile: obbedienza e scienza/sapienza: “appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili con l’obbedienza e con l’acquisto della scienza”. Alla seconda obiezione si risponde con un rinvio al futuro, perché ciò che non è chiaro ora, lo sarà a suo tempo: “a suo tempo tutto comprenderai”. Come si vede, l’obbedienza della fede dischiude l’intelligenza della fede, perché la fede è proprio il modo giusto di conoscere Dio, il modo giusto per accogliere le promesse di Dio, il modo giusto per vivere l’impegno del presente nella luce del compimento futuro. Certo, tutto è paradossale – il paradosso è il tipico segno del mistero! – “giacché le risposte in buona sostanza affermano che solo obbedendo al comando diventerà pienamente chiaro che cosa esso veramente richiede” (A. Bozzolo).
2. L’obbedienza della fede
L’obbedienza – si intende l’obbedienza filiale, quella di Gesù, quella di Maria, quella dei Santi e delle Sante, quella che è appartenenza e riconoscenza, fiducia e confidenza, lealtà e collaborazione – è la cosa giusta, perché in fatto di vocazione e missione non è questione di capire e di sapere, ma di vivere una relazione intima e feconda con Dio, dove la propria volontà è una cosa sola con la volontà di Dio, e dove la propria intelligenza è illuminata dalla sapienza di Dio. Accade allora il miracolo che la potenza di Dio si può esprimere nella nostra debolezza, e le nostre opere in Lui non sono altro che le opere di Lui in noi! È l’ideale della vita di grazia: “voi in me e io in voi”, perché ci sia amore e gioia, efficacia della preghiera e fecondità delle opere (cfr. Gv 14,20; 15,4; 15,5; 17,21-22).
L’obbedienza della fede rende possibile l’impossibile: spostare le montagne dell’orgoglio, guarire da ogni sorta di malattia, ottenere la salvezza e la vita eterna. Perfino questo dice il Signore: “se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe” (Lc 17,6)! Obbedire è sempre la cosa giusta, perché veramente – come Giovannino sperimenta nel sogno, e con lui ogni chiamato/a – la missione eccede totalmente le nostre forze, ma è resa possibile dal fatto che non fa leva sulle nostre capacità, che pure vanno messe totalmente in gioco, bensì sulla potenza del Signore Risorto e del Suo Spirito.
La testimonianza dei grandi personaggi che popolano la Bibbia è del tutto concorde (cfr. Eb 11,1-40). “Impossibile” è per Abramo avere un figlio da una donna sterile e anziana come Sara; “impossibile” è per la Vergine concepire e dare al mondo il Figlio di Dio fatto uomo; “impossibile” pare ai discepoli la salvezza, se è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli. Eppure Abramo si sente rispondere: “c’è forse qualcosa di impossibile per il Signore?” (Gn 18,14); l’angelo dice a Maria che “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37); e Gesù risponde agli discepoli increduli che “ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio” (Lc 18,27). Anche il luogo supremo della Redenzione è segnato dall’impossibile: com’è possibile, infatti, vincere la morte? Ecco allora cos’è l’obbedienza della fede: permettere a Gesù di capovolgere le nostre vedute su ciò che è possibile, perché Dio, risuscitando il Figlio fatto uomo nella potenza dello Spirito, ha sfondato il limite delle nostre possibilità umane e le ha aperte alle sue possibilità divine! Di questo ogni credente dovrebbe essere fermamente convinto: avendo aperto dall’interno la cornice del nostro limite e della nostra caducità, l’Incarnazione e la Risurrezione del Signore sono le cose più reali che esistano, le cose su cui possiamo sempre contare senza alcuna riserva.
Interessante è notare che l’obbedienza è talmente la cosa giusta, che, a ben vedere, è la cosa più elementare che si insegna ai bambini e al tempo stesso l’atteggiamento fondamentale di Gesù nei confronti del Padre. L’uomo venerando del sogno si rivolge a Giovanni come ci si rivolge a un bambino: “perché tali cose ti sembrano impossibili devi renderle possibili con l’obbedienza”. Sembrano le parole con cui i genitori esortano i bambini, quando sono riluttanti a fare qualcosa di cui non si sentono capaci o che non hanno voglia di fare: “obbedisci e vedrai che ci riesci”. Ma sono anche, e assai più, le parole con cui il Figlio rivela il segreto dell’impossibile, la sua obbedienza: “mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34), e “Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,29).
Il motivo più immediato per cui obbedire è meglio è che Dio può portare avanti il suo sogno su di noi solo se riesce a farci cambiare mentalità e atteggiamenti. Di fronte a contrarietà e imprevisti, solitamente reagiamo in maniera istintiva, impulsiva, immatura, perfino immorale. Troppo facile reagire “a mano armata” a cose ingiuste, magari sentendoci giusti. Tuttavia Mosè (Es 2,11-15) e Geremia (Ger 1,4-9) hanno accettato di andare al di là della loro giovane età, Pietro ha superato definitivamente lo scacco e la vergogna del tradimento (Gv 21,15) e sempre di nuovo ha “gettato le reti” sulla parola di Gesù (Lc 5,5); e Paolo, che era stato un “persecutore e un violento” (1Tim 1,13), ha imparato a “farsi tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22). Così, anche Giovanni Bosco, forte e impulsivo com’era, ha dovuto obbedire per imparare a reprimere il male non con la violenza ma con la benevolenza: “non con le percosse, ma con la mansuetudine”. Il frutto dell’obbedienza è un’autentica trasformazione interiore, che ci porta a superare la pretesa di cambiare le cose con la generosità dei nostri slanci spontanei o con la forza delle nostre doti naturali, per entrare nello stile con cui Dio agisce nella storia e nei cuori.
È allora importante segnalare un rischio che è sempre presente nell’obbedienza della fede: quello di continuare ad appoggiarsi sulle proprie forze o disperarsi per i propri limiti. È un rischio che Giovanni, significativamente, non corre! Giovanni era umanamente dotatissimo da tutti i punti di vista: straordinario vigore fisico, ottima memoria, stoffa di leader, sguardo contagioso, antenne per Dio. Eppure, proprio lui, riconosce che la missione è una chiamata all’impossibile. Spiega bene don Bozzolo: “Non è sul piano delle attitudini naturali che si gioca qui la richiesta dell’impossibile… Oltre questa frontiera, si apre la regione dell’impossibile, che è però, biblicamente, lo spazio dell’agire di Dio”.
3. L’intelligenza della fede
Dicevamo: l’obbedienza acuisce l’intelligenza. La cosa è garantita, perché viene dall’alto e compensa l’inadeguatezza/impossibilità del chiamato con un’offerta di luce presente e futura che rende sostenibili le quote di oscurità. Ma, appunto, questa garanzia è assicurata dall’obbedienza: la missione, per quanto possa apparire ardua e oscura, va attuata per essere capita. È questo il carattere di ingiunzione che ogni vocazione porta con sé.
Non stupisce, dunque, che nel sogno la dialettica di possibile e impossibile s’intrecci con quella di chiarezza e oscurità. Nel sogno, infatti, la confusione dell’animo di Giovanni contrasta con il volto luminoso del Signore, volto talmente luminoso da non riuscire a sostenere lo sguardo. È una dialettica tipica delle grandi chiamate, particolarmente presente nella vita dei mistici e delle mistiche, ed è l’esperienza di una luce tenebrosa e di una tenebra luminosa: essa dice che per quanto sia grande la conoscenza di Dio, il Suo mistero è ancora più profondo. Il fondamento di questa esperienza paradossale sta nelle due facce del mistero pasquale, che è sempre croce e gioia, innalzamento di Gesù sulla Croce e innalzamento di Gesù alla Gloria. Nel quarto Vangelo, Giovanni usa una sola parola per entrambe le due elevazioni: “quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,35).
È ancora interessante notare che nel sogno, oltre al volto luminoso del Signore, Giovanni riceve il dono di parole luminose: sia l’uomo che la donna spiegano in modo chiaro ciò che Giovanni deve fare, e tuttavia lo lasciano confuso e spaventato. Vi è anche un’immagine molto limpida, la trasformazione dei lupi in agnelli, che però conduce a un’incomprensione ancora maggiore. Non c’è dunque spiegazione che tenga, né conoscenza che possa anticipare l’obbedienza: non si può assicurare la vita prima di vivere o senza vivere, perché in gioco c’è la dismisura di Dio, la sua giustizia più grande, il suo amore infinito. È proprio attraverso l’obbedienza della fede che il senso di una vita intera viene chiarito.
Effettivamente, questa dialettica di luce e oscurità, e la forma pratica del suo chiarimento, caratterizzano la struttura teologale dell’atto di fede. Credere, infatti, significa camminare in una nube luminosa, che indica all’uomo la strada da percorrere ma gli sottrae la possibilità di dominarla con lo sguardo. Se Abramo è chiamato il “nostro padre nella fede” è perché camminare nella fede è fare come Abramo che “partì senza sapere dove andava”; non certo nel senso di muoversi a casaccio, ma nel senso di muoversi sotto la benedizione di Dio “per un luogo che doveva ricevere in eredità” (Eb 11,8). Nella fede è così: non si può conoscere in anticipo la terra promessa, perché la disponibilità a camminare contribuisce a farla esistere. “Le parole di Maria a Giovanni – «a suo tempo tutto comprenderai» – non sono dunque solo un benevolo incoraggiamento materno, ma contengono realmente il massimo di luce che può essere offerto a chi deve camminare nella fede” (A. Bozzolo).
Alla luce del sogno, ci possiamo chiedere:
- Qual è la temperatura della mia fede? Lo so che nulla è impossibile a Dio? che chi crede vede? che basta un granello di fede autentica per vedere i miracoli? che Maria è Madre e Maestra nella fede? che obbedire è meglio che fare di testa propria? In cosa la vita mi sta chiedendo di fidarmi, di affidarmi, di confidare? In cosa Dio deve vincere in me, in cosa abbattere le resistenze, in cosa sciogliere i nodi?
- Accetto il chiaro-scuro della fede appoggiato alla sapienza e alla potenza di Dio? Lo so che “se anche dovessi camminare per valle oscura non dovrei temere alcun male, perché tu sei con me”? Chiedo incessantemente nelle prove la pazienza e la speranza, per non cedere al pessimismo e allo scoraggiamento?